UNA GIORNATA

DI MEZZO OTTOBRE

A prima vista poteva sembrare una giornata come tante altre, ed era appunto una di quelle tiepide giornate serene di mezzo ottobre che capitano spesso da noi. Sì, forse un po' malinconiche, ma proprio adatte a fare da passaggio morbido tra un'estate che non c'è più e un autunno che diverrà triste, e tuttavia è ancora luminoso.

Preparativi un po' stanchi, come di chi non ha voglia di partire, senza fretta e senza parole, forse evitate perché non trapelasse l'imbarazzo, non emergesse l'impegno di sembrarti normali.

Ma ci pensi?! Tu così aperta all'intuizione, così sensibile all'amore da aver capito che per respirare Dio ti bastava essere sola, appollaiarti sopra l'olivo del giardino e chiudere gli occhi, e io e tua madre che ci illudevamo di nasconderti la nostra tensione con un sorriso o una battuta ordinaria!

I bagagli nella macchina, pochi, però, che te ne facevi delle cose inutili che sovraccaricano abitualmente la nostra esistenza? E poi i tuoi passi sulla ghiaia, leggeri, come in punta di piedi, e noi a guardarti che osservavi gli alberi, la casa, le siepi, i posti dei tuoi giochi, delle tue scoperte, convinti che ti volessi attardare ancora un po', che ti turbasse l'idea di lasciare tutto in cambio d'una veste scabra, d'una cella con un letto e un crocefisso di legno. Certo, non potevi non consentire alla tua residua sfera istintuale il gusto di inciderti dentro, come sopra una lastra di zinco, il fondale davanti al quale per anni e anni avevi corso, pianto, gridato, gioito, ma ci sfuggiva, eh sì, ci sfuggiva che tu volessi ringraziare la natura, quella che aveva fatto da scenario alla tua grande scoperta, e da lievito alla tua maturazione.

Poi la partenza, tu che ti voltavi a dare un'ultima occhiata, noi che di colpo, come per una rivelazione improvvisa, scoprivamo che la sera saremmo tornati soli, ma ancora non avevamo la forza di guardare avanti, al giorno dopo, al giorno dopo, e poi al giorno dopo.

Il viaggio silenzioso, le ultime consegne, tu che ci ricordavi gli ultimi saluti da trasmettere. Noi a raccomandare di fare in fretta, ma presto, presto, l'elenco di tutte le cose che ti potevano servire e tu che sorridevi: sapevi bene, tu, di avere già tutto, ma noi, come capirlo noi?

Guardavi fuori la campagna che scorreva, poi i paesi con la gente e i negozi, e c'era un'intensità nel tuo sguardo... Magari, però, era solo una nostra impressione, ti stavamo scrutando, preoccupati di poter cogliere un segnale di ansia nel vederti sfilare accanto il mondo da escludere dalla tua vita, tesi all'idea che ti potessi portare dentro il dolore della rinunzia: ecco, questo no, questo non l'avremmo saputo accettare, ma poi... Poi quel volo di rondini, forse pronte ad emigrare, anche loro chiamate altrove perché altrove era la loro vita, e tu che agitavi la mano:

- Avete visto? È un po' che ci accompagnano, mi salutano, fanno festa.

Ecco, così scoprivamo che si doveva fare festa.

Il monastero era stupendo, su quella collina verde e morbida, anche visto con i nostri occhi. Il parco, la grande casa, no, non grigia, tinta di un ocra chiaro composto, eppure radioso, la chiesetta... Però poi anche un grande cancello di ferro, con pannelli di lamiera per impedire la vista, e un muro così alto...

- Eccoci - dicesti.

Eh, già, eccoci. E ora?

Il campanello... Sì, un bel suono, uguale a quello di una casa felice, ma io... cosa m'ero aspettato?

La porta che si apriva, il parlatolo, la madre superiora e le altre sorelle, noi di qua, loro di là dalla grata, abbastanza rada però, no, non opprimente, solo un tenue ostacolo. Loro felici, palesemente felici, come poi ho capito che solo loro sanno essere, eppure serie, ben consapevoli che sentivamo di portare in dono un pezzo di noi e di dovercene ripartire mutilati. Si capiva che se non fosse stato per il rispetto dovuto ai nostri pavidi tremori avrebbero gridato per la gioia, e t'avrebbero accolto con i loro inni più festanti, perché là dentro si stava ripetendo il prodigio di una vita nuova attraverso la genitura della fede, e perché era giunta una compagna a condividere il loro cammino, arduo e privilegiato. E così eccole a rassicurarci, e a ringraziarci, sì, a ringraziarci per la nostra comprensione, ammirate per la nostra serenità, eh, già, perché altri genitori s'erano opposti, avevano cercato di impedire... Oh, poverini, se c'era da capirli! Era l'amore, non l'egoismo, però il "loro" amore, quello che conoscevano, fatto di parole sentite, di gesti scambiati, di sguardi incrociati, di sospiri raccolti, non lo sapevano che si può darlo e riceverlo a distanza, moltiplicato, impreziosito dalla distanza. "Ma voi, benedetti", chiedeva la superiora "come avete fatto a capire, ad accettare?" E tua madre ed io a guardarci, confusi, potevamo confessare che eravamo soltanto travolti? Sentivamo chiaro che era giusto mostrarsi sicuri, per liberarti dall'idea del nostro sconforto, e così giù ad imbastire concetti che, mentre si facevano frasi, perdevano anche il poco senso che già avevano nella mente, e allora io cercavo un appiglio e mi facevo coraggio nel vedere un radiatore, proprio come quelli di casa mia, e chiedevo impacciato:

- C'è... anche dentro il riscaldamento?

E loro tutte insieme, sorridendo comprensive:

- Diamine, che c'è anche dentro, state tranquilli.

Dopo mi accorgevo che ti fissavano con occhi

amorosi, come un dono prezioso e atteso, e all'improvviso era come se noi non ci tossimi più, perché tu ricambiavi lo sguardo, proprio lo stesso, e mi sentivo escluso, ma già allungavano le mani attraverso la grata, stringevano le nostre e ci pregavano:

- Venite, venite, presto, a parlare, a stare con noi, ci direte, vi diremo...

E quei sorrisi, e quella luce negli occhi, malvista altrove, come se non fosse loro e venisse da chissà dove.

E tu che ci salutavi tenendoci entrambi per mano e mormoravi "grazie", un'unica parola, ma quella sola aveva senso per te.

Poi fuori, la porta che si richiudeva e quell'ultima cosa che t'avevamo detto prima di entrare:

- Ricordati, casa tua sarà sempre tua, se dovesse accadere...

E tu che rispondevi:

- Non accadrà. - Serafica, certa, solida. Lo sapevi bene: "lì" eri a casa, "lì" eri stata chiamata a migrare. "Lì" era la tua vita, da sempre.

Quindi il ritorno, ognuno, tua madre ed io, con i propri pensieri. Gli stessi? Forse: tu viva, dinamica, anzi, effervescente, un po' restia agli orari e agli schemi, eccoti là, destinata a startene impaniata dentro un ordine esatto di momenti e di atti che si ripetono... Ma loro l'avevano spiegato:

- È tutto così naturale, e così facile! Pregare, cantare, meditare, lavorare, è un modo sempre diverso di stare con Lui, e così niente può essere monotono.

Che sconfinata convinzione! Ma tu, tu, dimmi, come c'eri arrivata? Un gene innato e nascosto, che a un tratto era balzato su? 0 un parto tutto tuo, una elevata elaborazione della tua anima? Oppure una scelta caduta dall'Alto, proprio su di te?

- Eh, caro, - mi aveva detto qualche giorno prima una minuscola suorina anziana con la quale m'ero confidato - quando Lui chiama si corre, si corre e basta, ma felici, sa? Così felici che sia toccato a noi! - Aveva tirato su le sue spallucce vestite di nero e aveva concluso sorridente: - Semplice, no?

Eh, già, per lei, ma noi, come capire noi?

Osservavo sul sedile accanto tua madre, assorta e muta, poi alla mente tornava un'altra frase che la vecchia suorina aveva sussurrato prendendomi la mano tra le sue piccole rinsecchite e fissandomi dritto negli occhi:

- Che fortuna! - e siccome la guardavo incerto aveva aggiunto: - Che si crede, anche lei è stata scelta; sa? Vedrà, c'è tempo, capirà, capirà...

Dunque dovevo aspettare, solo aspettare, c'era tempo.

1 paesi e gli alberi scorrevano a ritroso, là fuori, le rondini no, non si vedevano più, chissà dov'erano arrivate, oramai.

E a un tratto tua madre che pareva quasi destarsi, come uscendo dal sogno, e diceva sorridendo:

- Hai sentito cosa ha detto la superiora? Possiamo telefonare, ogni tanto. Che dici, domani?...

 

 

 

Franco Lazzarini

                       

                         con questo racconto ha vinto il secondo premio letterario “Giorgio                            La Pira” nel 1998


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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